ISRAELE, LA «START UP NATION» VOLTA LE SPALLE A NETANYAHU. E MOLTI INVESTITORI PENSANO DI LASCIARE IL PAESE

DAL NOSTRO INVIATO TEL AVIV — Le case in pietra costruite dai templari tedeschi restano sempre all’ombra dei grattacieli, eppure i ragazzi che passano nei sentieri tra negozi e ristoranti guardano dall’alto in basso verso su, verso i finanzieri in giacca e cravatta che dagli ultimi piani possono decidere dei loro piani d’investimento. Sanno che la start up nation è partita e resta in movimento grazie alle idee scambiate a gambe incrociate sulle poltroncine dei caffé, dove il wi-fi è gratuito e le connessioni tra innovatori ad alta velocità. Così è stato semplice, quasi istintivo, alzarsi tutti insieme martedì scorso – un’ora di sciopero per chi non conta le ore di lavoro – e formare un corteo sul vialone che porta alla Kirya, il quartier generale dello Stato Maggiore. Hanno fermato il traffico – un gesto ripetuto pochi giorni fa – e il simbolismo era chiaro: se ci fermiamo noi, si ferma tutto.

Perché hanno paura che Israele diventi la start stop nation, che la «riforma» della giustizia annunciata dal primo ministro Benjamin Netanyahu spaventi i capitali internazionali, che una legalità meno certa offuschi le loro certezze su come costruire il futuro tecnologico, spazi aperti che i pezzi più oltranzisti della maggioranza, con proclami omofobi e razzisti, vogliono rimpicciolire. Così i nativi digitali sono diventati l’avanguardia delle manifestazioni che al sabato sera hanno radunato fino a 100 mila persone.

I lavoratori dell’hi tech durante una recente protesta a Tel Aviv

L’imprenditrice Eynat GuezDa Tel Aviv – che è più vecchia del Paese ma ne resta la bambina ribelle – arriva fino al palazzo del potere a Gerusalemme la preoccupazione dei fondatori seriali, quelli che creano società e le rivendono per milioni di dollari (se va bene, altrimenti ci riprovano). Alcuni minacciano di andarsene: Eynat Guez vuole trasferire all’estero la sua Papaya Global (fornisce software per semplificare il pagamento degli stipendi), «un passo doloroso e necessario perché il piano del governo mette in pericolo la democrazia e quindi l’economia»; Tom Livne (il creatore di Verbit, Intelligenza Artificiale per scrivere testi, valore 2 miliardi di dollari) smetterà di pagare le tasse qui «così i politici verranno a consultarci e trattarci da pari».

Tom Livne, creatore dell’Ai VerbitAnche gli oppositori riconoscono a Netanyahu di aver contribuito nei suoi quindici anni totali da primo ministro alla trasformazione di Israele in un tesoro dell’alta tecnologia: l’industria vale da sola il 40 per cento delle esportazioni, garantisce il 15 per cento del prodotto interno lordo e impiega il 10 per cento della forza lavoro. Adesso però sono preoccupati pure gli economisti più tradizionali: Karnit Flug e Jacob Frenkel, ex governatori della banca centrale, hanno scritto un editoriale per Yedioth Ahronoth, il giornale più venduto, e hanno denunciato il rischio che «indebolire la capacità di supervisione dei giudici possa permettere al governo di introdurre misure dannose ai diritti di proprietà causando la fuga degli investitori per paura di decisioni arbitrarie e imprevedibili».

Il premier – un master in finanza al Mit di Boston – ha cercato di tranquillizzare la Borsa (e chi ne tiene i cordoni) spiegando che «la riforma permetterà una maggiore competizione: l’eccesso di regolamenti e l’intervento della Corte Suprema hanno spesso ritardato il nostro sviluppo». La coalizione al potere vuole sottoporre l’Alta Corte – accusata di iperattivismo e di aver in questi anni oltrepassato il mandato – al controllo della politica, del parlamento e soprattutto della maggioranza che esprime in quel momento.

2023-02-02T16:48:31Z dg43tfdfdgfd